Fammi tornare là

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<<Fammi tornare là>>.

Questa frase la diceva sempre, in quell’attimo che passava prima che la notte lo abbracciasse, nella frazione di secondo che precedeva il ciottolo che faceva inciampare e distendere inermi le sue palpebre, vittime civili della guerra del sonno che non conosce compromessi o armistizi.

Tutte le sere la giornata terminava in quello stesso modo, dopo il consueto andamento perennemente uguale a sé stesso, incurante dello scorrere delle stagioni, dell’avvicendarsi degli anni, dell’incanutirsi di barbe, capelli, zigomi e sopracciglia e del fiorire di rughe sulla pelle come erbacce intorno all’incuria.
I corridoi dell’ufficio quella mattina gli erano sembrati più lunghi e più bianchi del solito, e non perché la luce dei neon fosse cambiata, ma per una sorta di ragione superiore che non riusciva a scovare, all’interno della sua personalissima mappa delle cose che esistono.

I colleghi salutavano con i soliti gesti del capo, appena accennati, prevedibili da metri e metri di distanza: esisteva una sorta di tempismo, di “timing” specifico ormai consolidato in quel rituale umano che faceva scattare l’impulso fisico del saluto ad una distanza precisa di circa due metri e mezzo: un automatismo quasi matematico, biomeccanico, che regolava il cuore dell’unica convenzione sociale che era rimasta.

Fin da quando era ragazzo non ricordava nessun altro tipo di scambio umano all’interno dei luoghi pubblici: il sorriso, coperto dalle mascherine di protezione, era inibito. Anche i contatti lo erano, se non in poche, pochissime situazioni di assoluto controllo. Dell’amore, poi, aveva conosciuto due versioni diametralmente differenti: la prima, di quando non era che un bambino, fatta di abbracci, baci e contatto e la seconda, che arrivò dopo quella che comunemente veniva chiamata la “grande sventura”, il cataclisma che cambiò per sempre le relazioni fra gli esseri.Il mondo dopo la “grande sventura” era diventato più timoroso, recalcitrante e misurato: certi afflati di passione e affetto che spingevano i viventi agli abbracci e alle effusioni erano stati relegati all’interno di sfere precise e private: venivano guardati come si guarderebbe un vecchio cimelio, un souvenir da contemplare all’interno di vecchi film e foto di famiglia.

Tutto in quel nuovo mondo era strettamente ristretto, compresso, contingentato: file ordinatissime regolavano il vivere e l’agire quotidiano e le città, anche le più grandi, non erano che una casuale convivenza di milioni di individuali solitudini. Chi, come lui, aveva vissuto il passaggio fra questo mondo e quello precedente, non poteva non ricordare quest’ultimo con rimpianto; gli tornava sempre in mente questo raffronto impari ogni qualvolta incrociava, per pochi istanti, lo sguardo dell’autista dell’autobus che lo riportava a casa, chiuso nel proprio gabbiotto di vetro e lamiere.Teneva gli occhi fissi sulla strada bagnata delle prime gocce d’umidità di certe sere d’inverno, e si stupiva, non si capacitava nel vedere una tale desolazione nelle strade e fra i marciapiedi, unici danzatori di quella pista illuminata dalla luce stroboscopica di certi lampioni malfunzionanti.
Ne vedeva il volto riflesso nello specchietto del bus e ne osservava il puntuale brillare degli occhi e il ritmico scuotere della testa, regolare come un tic nervoso, come l’ostinata volontà di chi non vuole accettare un cambiamento non richiesto.Lo spettacolo poi si interrompeva al momento di scendere.

Casa non gli era mai sembrata così lontana.
Approfittò dell’ascensore libero e salì fino al settimo piano.Infilò con cautela la chiave nella toppa, mosso dalla paura di poterla svegliare.La tavola era apparecchiata, ma non mangiò nulla.
-“Vieni qui, dai, che è tardi”, disse la voce che gli era mancata da tutta la giornata.
Si lavò le mani e si spogliò; poi la raggiunse.
Lei era sdraiata sul letto e gli sorrideva come nessuno quel giorno aveva ancora fatto.
-“Fammi tornare là”, le disse lui.
E lei lo prese, lo strinse a sé e lo abbracciò, senza mai lasciarlo, fino a quando il sonno non si impossessò di lui.

Gli si dipinse un sorriso sereno in volto. Di quelli che non gli solcavano il viso da tempo. Come quelli che si facevano “là”, quando ancora non si conoscevano sventure di sorta.
Quando ancora si era liberi.

Quando ancora si era normali.

[Foto di Francesca Woodman]