Era l’uomo più grasso che avessi mai visto. Giuro, mai visto un altro così.
I bottoni della camicia gli tiravano sulla pancia e sul petto; sembrava dovessero scoppiare da un momento all’altro, partendo come proiettili per colpire chiunque fosse stato in quel raggio d’azione.
Insomma, questo arriva, si guarda intorno -e il locale era già vuoto, a quell’ora- e senza nemmeno levarsi il cappotto si mette a sedere nel tavolo più grande. Quello rotondo, al centro.
Vicino all’acquario.
Mi vede.
Io sto li, dove sto sempre.
Tra la sala e la cucina.
Mi fa un cenno con la mano, agitandola in aria.
Come se stesse salutando qualcuno su di un treno che parte.
“Cosa c’è di buono?”, Mi fa.
“C’è il menu sul tavolo, non l’ha visto?”, gli dico.
E lui: “Me lo racconti lei, cosa c’è. La prego”.
E mentre lo dice mi guarda e abbassa il viso, mugugnando come fanno quei cani quando ne hanno combinata qualcuna. Gli si fanno gli occhi grandi, lucidi. E mi sorride scuotendo leggermente la testa; e di conseguenza gli si muovono le guance e i doppi menti. Sbattono tra loro e schioccano in una tempesta di pappagorge, in uno tsunami di pelle flaccida.
“Che schifo”, penso io.
Tu guarda se questo ciccione doveva venire a mangiare proprio qui. E proprio la sera in cui ci sono io! E poi che fa, ci prova? Ma chi si crede di essere?
Fanculo.
A me, a questo lavoro del cavolo e agli uomini pieni di sè che fanno i cascamorti.
Che poi, fosse pieno solo di se. Questo è talmente grasso da essere pieno di chiunque. Chissà che cosa prenderà, pensavo, mentre gli elencavo il menù. E chissà in quanto tempo lo finirà.
Due minuti dopo sono andata in cucina. Lo chef non credeva alle sue orecchie; tre antipasti, due primi, due secondi, uno di carne e uno di pesce, e una frittura mista fra l’uno e l’altro. “Per cambiare bocca”, così aveva detto.
Quando gli portai gli antipasti non mi tolse gli occhi di dosso neanche per un attimo.
“Grazie”, mi diceva, per ogni piatto che portavo. “Grazie”, “grazie, signorina, grazie”, “Com’è gentile signorina, grazie”, ” lei è bella; è buona e bella”, e altre cose così, mi diceva.
E nel frattempo mangiava.
E quando mangiava non staccava mai gli occhi dal piatto, e nemmeno la bocca.
Creava un tutt’uno fra il piatto e le labbra, dove le posate altro non erano che come dei mandriani che conducevano il cibo lungo quel canale di scolo, quel canyon che dalla bocca passava per l’esofago fino a precipitare nel burrone dello stomaco come se si trattasse di bestie vive e pronte a fuggire. Bestie che quando passavano lungo quel percorso facevano dei suoni tremendi, dei risucchi, degli schiocchi, dei gorgoglii che mi fanno venire il vomito al solo ripensarci.
Magari poteva essere pure un bell’uomo, senza tutto quel grasso. Però nel frattempo, “che schifo”, pensavo.
I due primi glieli portai tutti insieme.
Non sapeva da quale cominciare; se avventarsi subito sulle tagliatelle ai funghi porcini o tuffarsi sul risotto al nero di seppia. Studiava i piatti come fosse un chirurgo, o un allenatore che guarda muoversi i propri giocatori in campo; e nel muovere la testa ora a destra, ora a sinistra, ora a destra, ora a sinistra, per la foga gli cadde il fazzoletto che si era messo al collo.
Glielo raccolsi più per pietà che per istinto.
Perché mi sembrava che anche il solo chinarsi, per uno come quello lì, fosse uno sforzo inimmaginabile.
Presi in mano quel brandello di stoffa.
Leggermente sudata.
Umidiccia.
Lui mi tese la mano. Una mano grande almeno il doppio della mia.
Afferrò il fazzoletto e se lo mise nuovamente intorno al collo; e nel farlo, non staccò gli occhi da me neppure per un momento; mi guardava fisso, languido, con due occhi lucidi e grandi come quelli di un vitello.
Dolci, teneri come quelli di un bambino, o no, anzi.
Come quelli di un qualche seduttore d’un vecchio film degli anni trenta.
Peccato solo per tutto quel grasso, pensavo. Tutto quel grasso che rovinava tutto.
“Lei è molto gentile”, mi sussurrò, rimettendosi il fazzoletto al collo, senza smettere di guardarmi.
“Non è nulla”, risposi io.
“No, no”. E’ molto. Moltissimo. E mentre mi diceva queste parole mi sembrava quasi che il suo indice mi sfiorasse il dorso della mano. O forse era solo una mia impressione.
Invece no.
Perché poi mi disse “che pelle morbida che ha, signorina. Che pelle morbida” .
E sorrise, anche se per un solo secondo. Dopodichè tornò nel suo silenzio cupo, imbarazzato. Quasi come un bambino che ha appena subito un rimprovero.
Poco prima che arrivasse il momento del dolce aveva la bocca completamente inzaccherata di olio e briciole di pane. Ogni volta che mi avvicinavo a lui per portargli da mangiare cercavo di stare sempre un po’ più lontana da lui.
Non mi piaceva.
Non mi piaceva per niente.
Pensavo a come potesse sentirsi una persona così.
A come trovasse il coraggio di uscire di casa, di salire su un autobus, di sedersi al tavolo di un ristorante, vuotandone le dispense senza provare nemmeno un briciolo di vergogna.
E mi ripetevo che in fondo era giusto che fosse solo.
Perché, dopotutto, chi mai accetterebbe mai di stare con uno così?
Lui parlava.
Stava ordinando una doppia porzione di torta.
Pere e cioccolato.
E una grappa bianca.
E un caffè lungo.
E io ascoltavo. Memorizzavo.
E guardavo le microscopiche gocce di sudore che gli imperlavano la fronte ed il collo.
E mi immaginavo il suo corpo nudo su quello di una povera sventurata.
Vedevo centinaia di microgoccioline di sudore disporsi in formazione sul suo petto, sulla pancia, fra le pieghe di ogni rientranza della sua pelle, per poi rovinare sul corpo di quella povera malcapitata in una inondazione non voluta.
Mangiò la torta e ne chiese ancora.
Chiese dell’altra grappa.
Pretese un cioccolatino insieme al caffè.
Chiese il conto.
Dopodichè, poggiati i soldi sul tavolo, si alzò a fatica dalla sua sedia.
Abbandonò il tavolo rotondo.
Hai presente? Quello vicino all’acquario.
Lo aiutai a mettersi il cappotto.
Mi guardò ancora con i suoi occhi grandi e lucidi. Parevano proprio quelli di un vitello.
“Fortunato colui che riuscirà a farla innamorare”, disse.
E io sorrisi.
“Non rida, se non se la sente”, disse lui. “Mi rendo conto. Mi rendo perfettamente conto. Lei ha un gran cuore, sa? Anche se si vergogna ad ammetterlo. Io lo so. L’ho capito, sa? Non se ne vergogni. C’è qualcosa di speciale, in lei”.
Aprì la porta d’ingresso e fermò un taxi.
“Grazie di tutto. E abbia cura di sé. Mi ricorderò di lei. E delle sue mani”.
Salì sul taxi un po’ a fatica. La portiera si richiuse, e la macchina scomparì sotto le luci della notte.
Sparecchiai. Spensi le luci.
Salutai i cuochi che ancora non facevano che parlare di lui e di quanto avesse mangiato.
Andai a prendere l’autobus. Il numero 18N. Il notturno.
La panchina della pensilina era fredda e umida. La strada vuota e silenziosa.
I miei occhi nell’attesa si fecero lucidi.
Nessuno mi aveva mai parlato così, prima d’ora.
[“Sette donne sole” – monologhi per voce femminile]
© Michele Vargiu – Teatro & NarrAzioni
Foto di Letizia Battaglia (dettaglio)